In questo articolo, Peter Gray spiega come il gioco favorisca l’immaginazione e, di conseguenza, anche il ragionamento.
Pubblicato da Peter Gray il 4 dicembre 2008 nella rubrica “Freedom To Learn” di Psychology Today.
Nell’ambiente peggiore, il campo di sterminio nazista, i bambini giocavano.
La spinta straordinariamente potente dei bambini a giocare non è nata per fornire loro “pausa” o “ricreazione”. È nata per uno scopo molto più serio di quello. È nata per aiutarli a sopravvivere. Nel corso della storia umana e della preistoria, il gioco è stato il mezzo principale dei bambini per acquisire le abilità, i valori e le conoscenze, di cui hanno bisogno per sopravvivere all’interno della loro cultura. I bambini non giocano per evitare la realtà della vita; giocano alla realtà della vita. In tal modo vengono alle prese con quelle realtà – fisicamente, intellettualmente ed emotivamente.
In saggi precedenti in questo blog, ho descritto come il gioco eserciti e costruisca nei bambini le capacità di linguaggio, ragionamento, locomozione, costruzione di cose e quelle che servono per andare d’accordo con gli altri (vedi i post precedenti). Ho descritto il gioco in modi che non contraddicono le immagini felici che abbiamo di bambini che giocano ad attività che amano in ambienti sani.
Ma il gioco non è solo adattivo in ambienti sani. Il gioco aiuta anche i bambini a confrontarsi e ad affrontare gli orrori del loro mondo e del nostro, ovunque esistano quegli orrori.
Vorremmo pensare ai bambini come completamente dolci e innocenti. In un mondo ideale, dove gli adulti sono completamente dolci e innocenti, potrebbero esserlo anche i bambini. Ma il mondo non è l’ideale ed i bambini che crescono, protetti dalla realtà dell’ambiente, in cui alla fine dovranno farsi strada, sarebbero scarsamente attrezzati per quell’ambiente. Non c’è da meravigliarsi, se i bambini resistono agli abbracci protettivi di adulti ben intenzionati, combattono le restrizioni intese a tenerli in parchi giochi idilliaci e si avventurano fuori, come ed ogni volta che possono, per sperimentare il mondo reale che li circonda ed incorporarlo nel loro gioco. Loro, non noi, sanno cosa è meglio per loro.
Il gioco nei campi di concentramento
La prova più drammatica che conosco riguardo alla spinta dei bambini ad abbracciare anche i peggiori orrori del loro ambiente attraverso il gioco si trova in un libro straordinario di George Eisen, pubblicato vent’anni fa, intitolato Children and Play in the Holocaust . Ecco due concetti che si trovano agli estremi opposti dello spettro emotivo di chiunque: l’Olocausto nazista ed i bambini che giocano. È scioccante vederli uno accanto all’altro nel titolo di Eisen. Eppure, come ci spiega Eisen nel corso del libro, i bambini sepolti nei ghetti e nei campi di concentramento nazisti giocavano, anche se brevemente, finché non furono assassinati. Non hanno giocato, perché erano ignari degli orrori che li circondavano. Né hanno giocato come mezzo per negare quegli orrori o distogliere la loro attenzione da essi. Piuttosto, hanno giocato in modi che li hanno aiutati a capire, confrontare e, per quanto possibile, affrontare efficacemente quegli orrori. Le prove di Eisen provengono dai diari e dalle interviste ai sopravvissuti.
Nei ghetti, la prima fase del concentramento prima di essere deportati nei campi di lavoro e di sterminio, gli adulti cercavano di conservare per i propri figli la parvenza di gioco innocente che avevano conosciuto prima; ma i bambini stessi, da soli, giocavano a giochi che si adattavano all’ambiente. Giocavano a giochi di guerra, a “far saltare in aria bunker”, a “macellare”, a “prendere i vestiti dei morti” ed a giochi di resistenza. A Vilna, i bambini ebrei giocavano a “Ebrei e Gestapomen”, in cui gli ebrei sopraffacevano i loro aguzzini e li picchiavano con i loro stessi fucili (bastoni).
Anche nei campi di sterminio i bambini che erano ancora abbastanza sani da muoversi giocavano.
In un campo hanno giocato a un gioco chiamato “solletico al cadavere”. Ad Auschwitz-Birkenau si sfidarono a vicenda a toccare il recinto elettrico. Giocavano alla “camera a gas”, un gioco in cui lanciavano pietre in una fossa e urlavano i suoni delle persone che muoiono. Hanno inventato un gioco chiamato klepsi-klepsi – un termine comune per rubare – che è stato modellato sull’appello quotidiano del campo. [NdT – Conosciuto a noi come “lo schiaffo del soldato”.] Un compagno di giochi era bendato; poi uno degli altri si faceva avanti e lo colpiva forte in faccia; e poi, tolta la benda, colui che era stato colpito doveva indovinare, dalle espressioni facciali o da altri indizi, chi lo aveva colpito. Per sopravvivere ad Auschwitz bisognava essere esperti nel mentire – per esempio, sul rubare il pane o sulla conoscenza dei piani di fuga o di resistenza di qualcuno – senza tradirsi. Klepsi-klepsi sembrava essere una pratica per quell’abilità.
Conclusioni
Nel gioco, che si tratti del dolce gioco che ci piace immaginare o del gioco descritto da Eisen, i bambini portano le realtà del loro mondo in un contesto immaginario, dove è sicuro guardare quelle realtà negli occhi, affrontarle, sperimentarle, e per mettere in pratica modi per la loro gestione. Alcune persone pensano che il gioco violento crei adulti violenti; ma in realtà è vero il contrario. La violenza nel mondo degli adulti porta i bambini, giustamente, a giocare alla violenza. In quale altro modo possono prepararsi emotivamente, intellettualmente e fisicamente alla realtà? È sbagliato pensare che in qualche modo possiamo riformare il mondo, per il futuro, controllando il gioco dei bambini e controllando ciò che imparano. Se vogliamo riformare il mondo, dobbiamo riformare il mondo; e i bambini seguiranno l’esempio. I bambini devono, e lo faranno, prepararsi per il mondo reale in cui devono lottare per sopravvivere. Proviamo a rendere quel mondo, nella realtà, non per finzione, il più felice possibile.
Tradotto per LAIF da Alessia Valmorbida.
L’apprendimento attraverso il gioco
Credits: Foto di Dimitris Vetsikas da Pixabay

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