Mamma Antonella ci presenta la seconda di quattro puntate dedicate alle riflessioni sull’educare nell’era del digitale.
Buona lettura!
Continuo a condividere con voi la mia riflessione su questo tema che come mamma ed educatrice avverto di estrema importanza ed urgenza. Per chi non avesse letto la prima parte del mio articolo e volesse farlo, ecco di seguito il link: Educare nell’era digitale: prima parte. Il libro al quale faccio riferimento è “VIETATO AI MINORI DI 14 ANNI. Sai davvero quando è il momento giusto per dare lo smartphone ai tuoi figli?” di Alberto Pellai e Barbara Tamborini.
Il cervello di un preadolescente
La preadolescenza (orientativamente tra gli 11 e i 14 anni) è considerata un’età particolarmente sensibile all’uso delle tecnologie, motivo per cui è ancora più importante valutarne le opportunità e i rischi.
E’ una fase della vita che meriterebbe lunghi approfondimenti… io mi limiterò a riportarvi una sintesi di quello che ho trovato interessante (e basilare) leggendo il libro.
In preadolescenza la parte del cervello più sviluppata è quella del “sistema limbico”, detto anche “cervello mammifero” e sede delle emozioni (vedi la teoria dei tre cervelli sviluppata negli anni settanta dal neuro-scienziato Paul McLean). Questa parte del cervello rappresenta dal punto di vista evolutivo lo stato intermedio tra il “cervello rettiliano” (sede degli istinti primari e delle funzioni corporee autonome) e la “neocorteccia” (sede del linguaggio, della mente e del pensiero).

Un preadolescente, dunque, è “molto più sensibile alle emozioni e ama sentirsi eccitato e coinvolto in situazioni attivanti” (non a caso gli autori definiscono la preadolescenza l’età dello tsunami).
Se da bambino agiva più istintivamente, la maturazione del sistema limbico gli permette ora di pianificare maggiormente le sue azioni, di valutare le situazioni e di agire di conseguenza.
La capacità di pianificazione va però allenata affinchè il cervello possa evolvere verso la maturazione della neocorteccia cerebrale o cervello cognitivo. In pratica si tratta di allenare “la capacità di pensare a quello che sentiamo”, allenamento sempre necessario anche in età adulta.
Tra gli allenamenti necessari per la crescita, la capacità di controllare le proprie emozioni ha sicuramente un ruolo primario. Essa infatti è alla base di tutte le nostre relazioni, della gestione dei conflitti e di quella intelligenza “intrapersonale” che ci permette di stare bene con noi stessi.
Ma che cosa ha a che fare tutto questo con l’uso della tecnologia?
Disconnessione, desensibilizzazione e dipendenza
Questi tre concetti sono fondamentali per comprendere l’impatto del digitale su noi stessi e sui nostri figli. Ecco cosa scrivono gli autori del libro:
“Le neuroscienze evidenziano che l’iper-esposizione mediatica riduce l’attivazione della corteccia dei lobi frontali e deprime tutte quelle funzioni che devono essere apprese grazie al coinvolgimento del secondo piano del nostro cervello (sistema limbico/cervello mammifero)… Se un bambino passa molte ore a videogiocare online sottrae il proprio cervello al confronto con l’esperienza nella realtà fisica che lo circonda”
I videogiochi e altri dispositivi connessi alla rete agganciano soprattutto la parte del cervello deputata al “sentire”, lasciando in stand-by la parte deputata al “pensare” ovvero il cervello cognitivo. Quest’ultimo entra dunque in uno stato di “disconnessione” che ci scollega dalla realtà; in questo modo il virtuale si sostituisca al reale. Inoltre:
“L’esposizione ripetuta a scene di violenza, in film o videogiochi, abbassa il livello di empatia verso situazioni reali di sofferenza; in termini scientifici, la riduzione di questa competenza nell’essere umano si chiama desensibilizzazione”
Questo aspetto mi sembra uno dei più preoccupanti se ne consideriamo i risvolti a breve e a lungo termine…
Anche la “dipendenza digitale” è un fenomeno facilmente riscontrabile tra i giovani e non solo. In inglese viene classificato come “Internet addiction disorder”: secondo le neuroscienze, i meccanismi che si innescano nella mente sono simili a quelli che riguardano l’uso di sostanze psicotrope.
Riporto a tal proposito un altro estratto dal libro:
“L’uso intensivo dello smartphone stimola la produzione di dopamina, un neuromediatore che rende un’esperienza desiderabile e spinge il soggetto a cercare di riviverla con sempre maggiore frequenza e intensità… La dinamica che si innesca è simile alla reazione causa-effetto: sullo schermo siamo sollecitati di continuo a reagire. Se non lo facciamo la sensazione di essere tagliati fuori ci mette ansia… Al pari delle dipendenze da sostanze, anche nell’utilizzo degli strumenti digitali c’è un’evidente difficoltà nel gestire l’autocontrollo, specie se il soggetto è in età evolutiva..”
“Baby-sitter elettronica”
Questo è il titolo di un paragrafo presente nel secondo capitolo del libro.
Inizia con il racconto di due genitori che durante una cena al ristorante, per poter parlare senza le continue interruzioni della figlia di 7 anni, decidono di darle in mano il cellulare per guardare i suoi cartoni animati preferiti.
Al di là del fatto di essere più o meno d’accordo con la scelta di questi genitori, ho iniziato a riflettere su quanto un gesto apparentemente semplice e banale, possa avere delle conseguenze che non sempre intravediamo. E questo soprattutto se ripetuto nel tempo e se i bambini sono molto piccoli.
Ecco cosa scrivono gli autori:
“Questa scelta interferisce con il mondo interno del bambino e gli insegna a non sentire più ciò che gli accade dentro e intorno, perchè tutto viene coperto dall’iperstimolazione che proviene dallo schermo. In questo modo i nostri figli disimparano tre cose fondamentali:
– trovare un modo personale e creativo per sconfiggere la noia
– stare connessi con il proprio mondo interno cercando di autoregolarsi in modo funzionale
-guardarsi in giro e trovare in ciò che li circonda un’occasione di… esplorazione della realtà ”
In pratica se lo schermo di un cellulare, di un tablet o di un televisore vengono utilizzati troppo spesso per calmare bambini irrequieti o annoiati, questi dispositivi diventano ben presto una sorta di “tappabuchi” emotivo. E questo disabitua i bambini a stare con le proprie emozioni, soprattutto quelle negative, e a cercare possibili soluzioni nella relazione con chi si prende cura di loro.
Questo “depistaggio delle emozioni negative” può avvenire anche nei ragazzi e negli adulti alle prese con la tecnologia. Pensiamo ad esempio a tutte le volte che prendiamo in mano il cellulare solo per ingannare il tempo durante un’attesa, oppure dopo un litigio per spostare l’attenzione su qualcos’altro, o semplicemente per riempire un tempo vuoto. E’ come se questi dispositivi diventassero una sorta di anestetico che ci permette di dimenticare per un pò i nostri “dolori” o sensazioni spiacevoli, che prima o poi però dovremo affrontare…
Cosa ne pensate? Vi ritrovate in queste considerazioni? Se volete lasciate un commento!
Alla prossima puntata!
Mamma Antonella
Mamma homeschooler, socia LAIF e autrice del blog “Percorsi di apprendimento”
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