Un racconto emozionante

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Se stai seguendo i vari articoli dedicati alla condivisione di testi scritti da un gruppo di ragazzi homeschoolers durante un laboratorio di scrittura creativa, non puoi perderti quello di Melissa, 14 anni. Un racconto veramente emozionante, un inno alla vita!

Non c’è altro da aggiungere se non… Buona lettura!

***

Avete presente? Quando sognate qualcosa, quando desiderate tanto una nuova vita, quando cercate la felicità ovunque, invano, sperate di passare una giornata felice. Quando è tutto buio e, incredibilmente, qualcuno accende la luce. Click! Quel qualcuno sei tu.

Ecco, sì. È così che inizierei una storia, se fossi una scrittrice. Inizierei raccontando di una bella giornata di sole, dopo la pioggia, senza arcobaleno, però. Non mi piacciono gli arcobaleni. Racconterei la mia vita da questo momento in poi.

 

Foto di Hans da Pixabay

Sono qui, tra le vie di una cittadina sperduta nell’universo, che osservo la bellezza di questo mondo, di questa vita che posso vivere. Sto scoprendo a fondo la bellezza della mia vita, che sono riuscita a conquistare, ho lottato per riaverla, sono sopravvissuta. Ce l’ho fatta. Tengo stretta la mano del mio ragazzo, Peter. Finalmente respiro dell’aria pulita e così strana per me. Lui mi sorride e cerca di trattenere le lacrime di felicità. Io sono troppo occupata a vedere la bellezza di un luogo che fino a poco tempo fa era quotidianità e normalità, mentre ora è meraviglia, avventura, libertà. Ho sognato questo momento a lungo. Io, Peter, il mondo esterno, le persone, le voci allegre.

Mi chiamo Julie, ho diciassette anni e sono sopravvissuta al cancro. Tutti mi dicevano che, purtroppo, non ce l’avrei fatta, quel mostro era troppo grande, troppo forte da sconfiggere. E, invece, eccomi qui. Ho sognato a lungo questo giorno, pensavo non sarebbe mai arrivato. Ho sperato, ho desiderato, ho sognato e ce l’ho fatta. Avevo paura, troppa paura, il mostro mi stava mangiando, mi risucchiava e io scomparivo sempre di più.

Nei primi tempi di malattia piangevo, vivevo nella depressione e nell’oscurità. Non c’era niente. Un vuoto, buio e pauroso. E io piangevo, la paura era troppo forte. L’ambiente dell’ospedale era nuovo per me e temevo di morire. Durante il giorno non riuscivo a fare niente, i miei cari mi stavano vicino, avevo i miei amati libri che aspettavano solo di essere riletti, mi venivano a trovare un sacco di amici, i miei compagni di classe, gli insegnanti. Tutti cercavano di confortarmi e supportarmi.

L’unico che non veniva era Peter, aveva troppa paura di perdermi, così come tutti gli altri, così come me stessa, avevo paura di perdermi, di volare via e scomparire troppo presto. Lui, però, era profondamente impaurito. Qualche giorno prima della scoperta della mia malattia mi aveva dichiarato il suo amore. Gli avevo dedicato una frase meravigliosa di Charles Dickens: – Tu sei una di quelle persone che si incontrano quando la vita decide di farti un regalo. – E lui aveva sorriso, i suoi occhioni neri si erano illuminati. Non veniva mai in ospedale per non spaventarmi.

I giorni passavano non troppo lenti. Nella seconda parte della mia malattia, mi sentivo meglio, avevo meno paura e cercavo di ripetermi sempre più spesso che ce l’avrei fatta. Iniziavo ad ambientarmi. Nel buio vedevo un esserino che voleva abbracciarmi. Trascorrevo il mio tempo rileggendo i miei libri preferiti, accogliendo le visite con piacere, scrivendo un diario e sognando il mio ritorno a casa. Sognavo di essere una giovane liceale che trascorreva le sue giornate come tutte le altre giovani liceali, andando a scuola, studiando, facendo sport, leggendo e uscendo con gli amici. Guardavo continuamente fuori dalla finestra, accanto a me, sperando di uscire al più presto da quella bianca e innocente prigione.

La terza parte della mia malattia è stata la più difficile. Piano piano quell’esserino che sembrava volesse abbracciarmi mi stava risucchiando, era lui il mostro. I dottori iniziavano a dirmi che sarebbe stato difficile salvarmi, il mostro era troppo potente. Io, continuavo a sperare. La paura cresceva forte in me, ma la cacciavo via, fingevo di sentirmi meglio e che sarei riuscita a salvarmi. Quando ero sola, però, leggevo e piangevo. Piangevo e leggevo. I libri erano tutti bagnati.

Ogni tanto la cara infermiera Carla mi vedeva e cercava di confortarmi, si era affezionata tanto a me. Non ero la prima ragazza con il cancro che aveva visto, certo, ma provava molta tenerezza per me perchè sapeva che lottavo a testa alta per vivere. – Julie, – mi ripeteva sempre, con il suo accento spagnolo – non mollare mai. Sei una ragazza forte. La vita è tua ed è giusto che resti a te. Quel mostro non può rubartela, hai capito? – Io annuivo e continuavo a crederci, a pregare, a sognare. – Bambina mia, impara ad amare ogni secondo della tua vita, impara ad accettare anche i momenti brutti. Fa finta che quello che stai vivendo sia un racconto, uno stupido racconto. Un piccolo, stupido, ma allo stesso importantissimo racconto del tuo romanzo, del romanzo della tua vita. Resisti, Julie. Non mollare. –

Le sue parole erano il regalo più bello di quel periodo. Di quel racconto, di quel capitolo del romanzo della mia vita. E la mia vita non poteva finire con quel racconto.

E, invece, sembrava dovesse finire così. Nella quarta e ultima parte della mia interminabile malattia, il mostro era diventato il tutto. Tutto. All’inizio vedevo il niente, poi il mostro aveva preso tutto. Ero debole, non riuscivo a leggere, mangiavo poco, dormivo tutto il giorno. I dottori erano sempre accanto a me, probabilmente non mi lasciavano in nessun momento. Carla continuava a ricordarmi di lottare, di riprendermi la mia vita, di ritrovare me stessa in quel tutto o niente infinito. L’unica cosa che ancora riuscivo a fare era sognare. Sognavo di stare bene, di essere fuori dall’ospedale, di poter mangiare una pizza, di poter abbracciare qualcuno. Le mie forze diminuivano sempre più. Sognavo. Sognavo semplicemente di vivere. Coloro che sognano di giorno sanno molte più cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte, diceva Edgard Allan Poe.

Un giorno, forse una notte o un pomeriggio, accadde. Il buio. Il mostro mi aveva risucchiato completamente. Vedevo tutto buio, non sentivo nessun rumore, nessuna sensazione. Nero. Oscuro. Forte. Brutto. Paura. Aiuto. Sì, ero morta. Non ce l’avevo fatta, il mostro aveva vinto. I miei sogni erano soltanto sogni. Avevo lottato, ma non ero riuscita a vincere. Il mio romanzo finiva così.

E poi, una luce. Una piccola, minuscola, fievole luce. Sentivo una voce, vedevo la luce, percepivo qualcosa. Quel qualcosa non era affatto la morte, anzi era lei, la vita. Ce l’avevo sicuramente fatta. Con molta difficoltà riuscii ad aprire una palpebra. Qualcosa di bagnato mi toccò la guancia. Una lacrima, forse. Sentii un tocco familiare sul palmo della mia mano. – Scusa. Scusami. Scusa. – ripeteva, una voce. Era la sua voce, la riconobbi. Peter. Tu sei una di quelle persone che si incontrano quando la vita decide di farti un regalo, avrei voluto ripetergli. Volevo parlare, volevo urlare di gioia. Ero viva. Stavo vivendo. Invece, riuscii solamente a balbettare qualcosa: – Sognavo… la vita. – Poi, i miei occhi si chiusero pian piano, era ancora troppo presto per ricominciare a vivere.

Quando mi svegliai del tutto, mi accorsi che mi guardavano tante persone piangenti. Accanto a me c’era Peter, che continuava a scusarsi. La mia famiglia mi guardava con dei sorrisoni, cercando di nascondere il pianto. Guardai subito Peter. Avrei voluto dirgli un sacco di parole, ma non riuscivo ad aprire la bocca, così mi sforzai di sorridere. Anche se non c’era bisogno di parlare, lui aveva già capito tutto. – Grazie. – disse.

 

Adesso sono qui. Sto tornando a casa, con il mio ragazzo. Finalmente sono uscita da quell’ospedale. Sono una guerriera, sono riuscita a riprendere la mia vita. Non sento più il rumore dei carrellini e quel bip assordante. Non c’è più odore di disinfettante. Sento il profumo della vernice fresca sui muri e dell’erba appena tagliata. I bambini che giocano, le persone camminano intorno a me. Vi sembrerà la semplice normalità, ma per me, fino a poco tempo fa, era ormai qualcosa di sconosciuto. Cammino ancora piano, devo appoggiarmi a Peter, ogni tanto mi gira la testa, ma mi sento libera.

Arriviamo davanti casa. Sono emozionata, i brividi scorrono sulla mia pelle. Non riesco a immaginare che tra poco rivedrò i miei cari nella mia casa. La mia cameretta viola, la mamma diceva sempre fosse vuota, strana. Pensando che tornerò presto a vivere come prima mi inquieta un poco, ma non vedo l’ora.

Ci sono, sto per entrare. Stringo forte la mano di Peter. Non c’è bisogno di suonare il campanello, la porta si apre immediatamente. La mamma mi abbraccia forte, poi arrivano anche il papà, mia sorella Lisa e i nonni. Sono tutti qui con me, per me. Hanno creduto in me e io ho creduto in loro. Appena ci stacchiamo da questo lungo e dolce abbraccio, mi accorgo di avere le lacrime agli occhi, così come tutti gli altri. Ci guardiamo. – Grazie. – sussurro. La mamma e il papà sorridono. La nonna stringe forte un fazzoletto e il nonno distoglie continuamente lo sguardo. Peter mi stringe la mano. Lisa mi abbraccia forte, come per tenermi stretta, per essere sicura che non mi perderà.

– Julie, sei viva! Julie, ce l’hai fatta! – continua a ripetere.

– Sì, dai, su! Lisa ce l’abbiamo fatta tutti insieme. – la conforto. Ora sono io che conforto lei. Per fortuna sono tornata ad essere la sorella maggiore. – Ora basta, dai! Non fatemi piangere ulteriormente! Arrivo a casa e mi accogliete piangendo? Su con il morale, gente. È stata dura, ma ora è passato. È tutto passato, un semplice, stupido capitolo della mia vita. – sorrido, cercando di cacciare le lacrime. Ora è finita, sono libera.

Lisa ha ancora un po’ lo sguardo impaurito: – Stai tranquilla, sorellina! – inizio a farle il solletico e lei sorride. – Alla fine, com’è andata l’interrogazione sulla preistoria? Dall’homo habilis all’homo sapiens? – chiedo, cercando di cambiare argomento. In ospedale l’avevo aiutata un po’ a studiare.

– Julie, l’interrogazione sugli uomini preistorici l’abbiamo fatta due mesi fa! –

– Ah, passa in fretta il tempo, eh! – Cavolo, due mesi fa. E io che pensavo fosse stata la settimana scorsa.

Io e Peter ci sediamo sul divano e la mamma porta una gustosa torta al cioccolato, quanto mi è mancata! I nonni vanno a prendere dei regali, la mamma taglia la torta e il papà l’aiuta, Lisa va a prendere il suo nuovo tablet.

Mi giro e guardo gli occhi profondi di Peter. Quegli occhi che fino a poco tempo fa erano cupi e impauriti, ora risplendono. Sono sorridenti e giocosi, come quelli dei bambini. Ci guardiamo, lui mi sorride. Ho sognato a lungo questo momento. – Grazie per aver acceso quella luce, quando tutto intorno a me era buio. –

 

Melissa, quattordicenne in istruzione parentale

Durante il laboratorio di scrittura creativa, anche per il suo racconto le parole obbligatorie erano: Incredibilmente, cioccolato, arcobaleno, homo abilis, vita, vernice

 

Di seguito, un altro racconto di Melissa e altri testi scritti dai suoi amici:

Scrittura e creatività

“Voglio tornare a casa”

Spazio alla fantasia

I ragazzi del gruppo SuperSaGe invitano i loro coetanei a partecipare anche online all’esperienza del laboratorio di scrittura creativa!

 

L’esperienza dell’istruzione famigliare/parentale/homeschooling apre un mondo di riflessioni sull’apprendimento

Se desideri capire meglio l’istruzione parentale, anche sul nostro canale Youtube troverai informazioni interessanti.

 

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